sabato 7 dicembre 2019

Martin Eden, 1925

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Temo mi stia sfuggendo di mano 'sta cosa di andare cercare edizioni un po' agèe dei grandi classici della letteratura per poi leggermeli, a mo' di contrappasso per gli anni spensierati di gioventù e ignoranza. Tutto è cominciato con un Dickens del 1955, stimolato da una trasmissione di Rai5. Successivamente, grazie all'imput di un post di una scrittrice che stimo tantissimo, ho recuperato un'Harper Lee del 1962 (n.b.: prima di leggere "Il buio oltre la siepe" pensavo che Harper Lee fosse un uomo, così,  giusto per farvi capire il mio livello di ignoranza in fatto di classici). Ora è la volta di Jack London con il suo "Martin Eden". A farmi scoccare la scintilla questa volta l'apparizione di questo libro in una scena di un bellissimo film francese in questi giorni nelle sale, "La Belle Epoque" (altra mia fissa è quella di sbirciare che libri vengono messi in mano agli attori).






Per un prezzo pari a quanto avrei pagato in libreria l'edizione contemporanea ho messo le mani sulla prima edizione in lingua italiana, datata 1925, per i tipi della casa editrice Modernissima, nella traduzione di Gian Dàuli, che in chiusura della sua introduzione spende per Jack London queste belle parole:
"Le sue opere sembrano l'impronta eterna del suo cuore e del suo genio, e tramandano, con la bellezza, fede e speranza agli uomini."


Una chicca nella chicca è il plico della spedizione in piego di libri raccomandato, affrancato con ben 21 francobolli di ben 13 modelli diversi tra loro, con valori che vanno da Lire 40 a Euro 0.70 (tutti rigorosamente non timbrati... che faccio? stacco e riutilizzo?).



venerdì 22 novembre 2019

Russia coast to coast in Transiberiana

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La Transiberiana, la famigerata strada ferrata che attraversa la Russia, è una promessa carica di tutta la suggestione che le deriva dalle terre lontane verso cui conduce. Al contempo è un qualcosa in grado di far tremare le vene dei polsi anche al più navigato dei viaggiatori: priva del fascino e dell'allure di un'altra nota tratta ferroviaria quale l'Orient Express, più che a un comodo treno fa pensare a una tradotta spartana. In un ipotetico gioco di associazioni mentali la Transiberiana, più che al concetto di viaggio o di vacanza viene spontaneo collegarla a quello di deportazione. Per farsi un'idea del possibile disagio basta provare ad immaginarsi al gelo sulla banchina di una stazione, impalati di fronte a un tabellone per capire da che binario parte il vostro treno aguzzando la vista verso una dicitura tipo Транссибирская железнодорожная магистраль (la traslitterazione in alfabeto cirillico di “Ferrovia Transiberiana”): sfido chiunque a non provare un minimo di smarrimento. Chiunque, ma non Cristina Cori, giovane romana che del viaggiare si può dire abbia fatto una precisa scelta di vita. Giornalista di formazione, brillante travel blogger per vocazione (seguirla sulla sua pagina FB è uno spasso), e tour-leader di professione, a conferma della validità del detto “fai un lavoro che ami e non lavorerai mai un giorno in vita tua”.

L'idea di attraversare la Russia in treno le è venuta in Giappone, fantasticando su come tornare in patria dopo aver lavorato qualche tempo nel Paese del Sol Levante. Quella volta in Italia poi ci tornò molto più banalmente in aereo, ma solo perché da casa era più comodo organizzare la partenza per la Russia. Va detto che per Cristina “organizzare” è un termine da prendere con beneficio d'inventario. Il suo è un viaggiare istintivo, sanguigno, dove la programmazione è in dose omeopatica, giusto quel tanto che serve per seguire la rotta ma nulla più dello stretto indispensabile.


“...mi lancio in situazioni di vario tipo senza pensarci troppo. Parto, improvviso, arrampico su roccia, faccio l'autostop, macino chilometri in bici, dormo dove capita, mi lascio trasportare dall'intuito. Perché? Forse semplicemente perché queste cose mi fanno sentire bene...”

Altra sua caratteristica è la predilezione per il viaggio in solitaria, non per egoismo, semplicemente l'unica scelta possibile per garantirsi la libertà d'azione che le consente di intrufolarsi nella vita delle persone che incontra e farsi assorbire dai luoghi che visita. E di incontri  se ne possono fare davvero parecchi viaggiando tra Russia e Mongolia per quattro mesi, complice il fatto che, per dirla con le sue parole: “...i russi ti accolgono a braccia aperte, ti rimpinzano di cibo come nonne pugliesi, ti offrono da bere fino a esaurimento scorte come un cugino veneto e ti raccontano le loro vite fino a tarda notte”.

La leggerezza con cui Cristina ha scritto queste pagine è un po' lo specchio del suo approccio easy alla vita e al viaggiare. A leggere il suo libro si comprende come un coast to coast in Russia oltre ad esser stato un Viaggio (V maiuscola!) sia stato anche un atto di fede che, se da una parte richiede pochi soldi – sapendosi adattare e viaggiando in paltzkart, la 3a classe - dall'altra necessita di tanto tempo a disposizione tali sono le distanze tra una località e l'altra. A titolo di esempio: per andare da Mosca a Vladivostok tocca stare in treno per una settimana di fila. Un bagaglio essenziale il suo, nel quale è indispensabile trovare spazio per una buona dose di ironia, dotazione indispensabile per la salute mentale del viaggiatore che si trova a convivere in promiscuità e a confrontarsi per giorni e giorni con sconosciuti che, quando finalmente viene il momento di scendere dal treno, ti rendi conto di conoscere meglio dei tuoi parenti, nonostante del russo tu non conosca nemmeno una parola.

Ed è così che tra brindisi a digiuno coi cosacchi e tentativi di comunicare con le provodniste (ovvero le addette che si occupano dei passeggeri, con molta fantasia possono essere considerate le hostess), Cristina l'italianka solitaria ci accompagna alla scoperta di una Russia che sa essere oltre che bella e ospitale anche simpatica. Una Russia assai diversa dai cliché e dagli stereotipi che da sempre l'accompagnano. Lo stesso vale per la lunga parentesi mongola di questo viaggio, deviazione doverosa per chi arriva a spingersi tanto ad est e si traduce in quello che, di fatto, equivale allo sbarco su di un altro pianeta tali sono le peculiarità di quella terra e dei popoli che la abitano. Il tutto raccontato con una verve e un'ironia, che ti vien voglia di andarci, per metterti alla prova fino ad arrivare a scalare le dune del Deserto del Gobi e restare incantato ad ascoltarne il canto, fiero di aver superato ogni ostacolo, compreso l'esserti trovato a tu per tu con le impossibili latrine mongole.

“... il mio è un percorso un po' anomalo, lo ammetto. Normalmente le persone si divertono e collezionano esperienze e amicizie prima dei trent'anni, decade in cui arriva il momento di mettere la testa a posto e cominciare una vita stabile. Io per anni ho fatto l'esatto opposto. Mi sono imposta una vita normale, molta (forse troppa) disciplina, ma alla fine non ce l'ho fatta più a remare contro me stessa e giusto a trent'anni ho imboccato tutta un'altra strada...”

Russia coast to coast in Transiberiana
Cristina Cori
Alpine Studio
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lunedì 18 novembre 2019

Violeta ballava da sola...

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Affrontò l'ultima parte della leggera salita a occhi bassi, ascoltando il rumore delle rotelle sulla ghiaia. Faceva caldo, e d'altra parte c’era da aspettarselo. Sentì un rivolo di sudore lungo la schiena e provò il tipico disagio di chi non avrebbe potuto mettersi sotto una doccia fino a sera. Il viaggio, pensò. Un lungo viaggio, portando un sacco di cose con sé. Non indumenti e scarpe. Non guide turistiche, o libri da leggere. Il carico era quello dei ricordi, e delle speranze. I ricordi di quello che aveva fatto, che era successo; le speranze, quelle che riponeva nello sguardo e nell’espressione di chi avrebbe incontrato al suo arrivo. Sospirò, e svoltò l’angolo del viale.

Questo è l'incipit pensato dallo scrittore Maurizio De Giovanni per il contest di narrativa breve proposto dal quotidiano genovese il Secolo XIX ai suoi lettori, una sfida a continuare seguendo questa traccia e comporre un racconto nel limite delle 3.000 battute complessive.


La storia dell'incontro tra la giovane Violeta e Jesùs, libraio ambulante, è stata selezionata tra gli oltre 450 scritti inviati al quotidiano ed è stata pubblicata nel numero andato in edicola sabato 16 novembre.
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Cuxuljà era un pueblo desolato e disperato come solo i villaggi del Chiapas sanno essere, una manciata di case sparse ai lati della 199, la Carretera Federal che l'aveva condotto fino a lì. Jesùs Ortiz percorse i pochi metri fino alla casa di Violeta. Sul far della sera si era fermato alla gomeria per controllare uno pneumatico, giusto di fronte c'era la Posada Descanso. Il logo della San Miguel lampeggiava da un'insegna al neon, una cerveza gelata era quello di cui aveva bisogno. Violeta se ne stava davanti al jukebox, ballava da sola sulle note di una vecchia canzone gipsy. Lo vide entrare e gli sorrise. Jesùs si scordò della San Miguel gelata e ordinò due margarita. A Violeta tanto bastò per andare a sedersi accanto a lui. Jesùs sapeva che tanta spontaneità non era disinteressata, ma andava bene così. Violeta era giovane, profumava di fresco. Lui di anni ne aveva tanti di più, ma non abbastanza per rassegnarsi al fatto che una fanciulla, per quanto mercenaria, fosse attratta da lui solo per denaro. Da più di vent'anni girava il Messico con il suo pickup, sulle portiere si intravedeva  la scritta “el Librero Viajero”, anche se di libri ormai non ne vendeva più. Violeta era bellissima. Non sarebbe stata certo la prima a cercare di far cadere un po' di mescalina nel suo bicchiere. Ci provavano sempre quelle come lei. Era successo anni prima, e poi gli fu davvero difficile spiegare alla sua Marisol come ci era finito abbandonato in un vicolo senza più nemmeno le mutande addosso: “Jesùs, tu te ne vai in giro, io resto a casa ad aspettarti e tu che fai?, Te ne vai a puttane?”. Lo sguardo e l'espressione che da quella volta Marisol gli riservava al suo ritorno non fu mai più lo stesso.
Jesùs Scivolò furtivo dentro la casa di Violeta. Senza fare rumore si chiuse la porta alle spalle. Attese il tempo necessario a che i suoi occhi si abituassero all'oscurità. Entrò in camera e lasciò la valigia ai piedi del letto. Con cautela scostò il lenzuolo e rimase a guardarla compiaciuto. Ammirò quel suo corpo giovane dalle curve sinuose, quei suoi seni generosi, le sue gambe lunghe, toniche e tornite così come le sue braccia. Gran bel lavoro. Tutti i pezzi erano pronti per esser messi nella valigia. Al solito la testa l'avrebbe lasciata sul cuscino, con accanto una moneta da un pesos.

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Insieme a me sono stati selezionati e pubblicati anche i racconti proposti da Laura Tarchetti e da Ivana Librici. Tutti e tre i racconti possono essere letti a cliccando QUI



venerdì 1 novembre 2019

Sono ufficialmente un autore cariato!

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Sono davvero contento per il mio "Commissario Cazzaniga...", che ha trovato casa, e che casa! Trovare spazio per i propri scritti su una rivista letteraria è una cosa che più di altre mi fa sentire "scrittore", anche perché CARIE nel panorama dell'editoria indie è una realtà ormai affermata e consolidata.
A testimoniarlo il recente cambiamento di pelle, con una nuova redazione che nel segno della continuità ha mantenuto la denominazione odontoiatrica che da sempre la contraddistingue.

Per dirla con parole loro, pubblicare su Carie equivale a trovare il biglietto d'oro di Willy Wonka ed entrare così nella fabbrica del Cioccolato.

Semplicemente STRE-PI-TO-SA poi la tavola che accompagna il mio racconto, davvero grazie e complimenti a Linda Aquaro per come è riuscita a racchiudere nella sua illustrazione le esatte sfumature del mio racconto: grazie a lei ora il Commissario Cazzaniga oltre a una casa ha pure un volto!


Trovate il mio racconto insieme a tante altre belle storie meravigliosamente illustrate nel Numero Speciale di CARIE dedicato al bianco/nero che trovate nella sezione "numeri" del sito. 

Da questo link invece andrete direttamente alla pagina con il mio racconto.
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martedì 15 ottobre 2019

Fiori bianchi, fazzoletti rossi.

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La locandina Web della proclamazione

   "Solo" una menzione, che è pur sempre motivo di grande soddisfazione anche perché il contest era di un certo prestigio: Omaggio a Cesare Zavattini, immaginari, storie e aneddoti della Bassa, organizzato dalla Fondazione Un Paese - Centro Culturale Zavattini di Luzzara (RE). In giuria autorità locali e nomi noti del giornalismo come Gianni Mura e dello spettacolo, con Stefano Bicocchi (in arte Vito), nel doppio ruolo di giurato ed interprete dei racconti finalisti, accompagnato dalle note della fisarmonica di Lorenzo Munari. La cerimonia si è svolta sul palco del Teatro Sociale di Luzzara, un piccolo gioiello recentemente rinnovato.

Foto: Mattia Freddi
Foto: Mattia Freddi

   La formula del contest era quella del racconto breve, anzi, brevissimo (1 cartella, 1800 battute). Una menzione che mi fa particolarmente piacere anche perché avevo timore di come sarebbe stata accolta la tematica che sono andato a trattare, che in qualche modo nonostante siano passati tanti anni, può essere ancora un argomento fastidioso.

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FIORI BIANCHI, FAZZOLETTI ROSSI.

   L'Omero l'ho tenuto d'occhio, non ha battuto ciglio per tutta la funzione. Mentre si andava al cimitero ho visto che il bastardo, nella mano che reggeva il manubrio della bici, teneva un fiore bianco. Tanti fiori e tanta gente in chiesa: seduti davanti l'Attilio con la moglie. Lei era cugina della mamma dell'Elvira e dopo la guerra si era presa in casa la pütleta. C'era il maestro Bertelli, impassibile. La maestra Castaldi invece le lacrime le aveva proprio finite. Dopo che il Bertelli l'aveva bocciata l'Elvira era andata in classe con la Castaldi e di anni non ne aveva persi più. Le scuole però mica le aveva finite. Quando l'Attilio si era preso anche il negozio a fianco per aprire la privativa dietro al banco ci aveva messo la moglie. Così era toccato all'Elvira dargli una mano in posteria, e a scuola non si era vista più. La maestra Castaldi quando andava a far spese le diceva cosa studiare e le guardava i quaderni. E si arrabbiava. Perché in vita sua di studenti bravi così ne aveva visti pochi.

   L'Elvira l'aveva cresciuta il suo papà. Le diceva: la mamma è volata via quando sei nata, e lei guardava le nuvole. Il Bruno, il papà dell'Elvira, faceva il messo comunale, da sempre. Solo che un bel giorno per farlo aveva dovuto indossare la divisa: le cose funzionavano così. Lo sapevano tutti, o almeno così credeva il Bruno, e il 25 aprile mica si era preoccupato di cavarsela alla svelta quella maledetta divisa, come avevano fatto tutti quando l'Omero e gli altri erano tornati in paese, coi fazzoletti rossi legati al collo.

   Comincia a far scuro. Dall'argine sale la nebbia, gennaio è così da sempre, ma non è una cosa a cui ci si abitua. Non ci fai caso perché l'inverno è fatto così, ma in certi giorni non riesci a far finta di niente. Non ce la fai a non pensare a quanto è stata fredda la vita per l'Elvira, a quanto dev'esser stata fredda l'acqua del grande fiume.

L'immagine è un fotogramma del film "Il grido" (M. Antonioni - 1957)



















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