venerdì 14 luglio 2017

La lunga notte del Maresciallo Cazzaniga

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Il maresciallo Olindo Cazzaniga si passò una mano sulla pelata, gesto primordiale di un'epoca remota in cui sistemarsi il ciuffo lo aiutava a schiarirsi le idee. Cercava di recuperare almeno un poco della sua lucidità, svanita nelle ultime ore. I suoi capelli invece erano svaniti qualche anno prima. Avevano iniziato a diradarsi poco dopo la promozione a maresciallo, quando dalla sua Mandello l'avevano destinato a fare il comandante di stazione in quel di Lambrate. Un laghèe come lui aveva sofferto e non poco nel traslocare, come suol dirsi "armi e bagagli", nella periferia della grande metropoli. Quanto gli mancava il soffio della Breva che insieme alle acque del lago spazzava via anche pensieri e malumori. A pochi chilometri adesso aveva l'Idroscalo e ogni tanto si lasciava tentare ed andava a farci un giro, ma passeggiare sulle sponde di quel grosso stagno non faceva altro che fargli sentire ancora di più la nostalgia di casa. A Milano la primavera durava un niente, l'estate era una fornace che arroventa l'asfalto e l'inverno era come un lungo mal di pancia che non finisce mai. In quella notte novembrina, umida e fredda, l'aria era pungente e lesto rimise al suo posto il copricapo d'ordinanza. Il bel ciuffo del tempo che fu era stato rimpiazzato con un robusto paio di mustacchi, a far pendant con le sue folte sopracciglia. Nel tempo aveva imparato ad aggrottarle ad arte, assumeva un'aria truce che più di una volta era stata determinante per far cantare il balordo di turno. Atteggiata quindi la sua smorfia di servizio Cazzaniga si rivolse al testimone:
«Favorisca le generalità!»
«Niente, grazie, sunt a post inscì.»
«A posto cosa?» gridò Cazzaniga.
«Sciur cumissari, ho mia sentì... con quel frecc chì la me s'è stopà n'uregia.»
«Maresciallo, prego! Le-ho-chiesto-come-si-chiama!» gli scandì in faccia Cazzaniga.
«Oreste Resteghini!»
Cazzaniga lo squadrò. Più che un tipo losco un tipo strambo: la gente del quartiere riferiva che erano almeno un paio di giorni se non tre che lo vedevano fare avanti e indietro lungo la strada che va al deposito locomotive, tanto che qualcuno impietosito gli aveva dato qualche soldo di elemosina, monete che lui soppesava perplesso e poi intascava con indifferenza, senza un grazie.
«Ascolti bene che non c'ho tempo da perdere: cosa ci fa fuori dal deposito della ferrovia?»
«Quale zia?»
«Zia? Ma che zia e zia Restegini!»
«La zia dei fiori: ha mica chiesto chi ha deposto i fiori per la zia?»
«Ma quali fiori Resteghini!, quale zia!», sbottò Cazzaniga: «Ho detto fuori-dal-deposito! Cosa-ci-fa-fuori-dal-deposito-della-ferrovia?».
Il tipo non sembrava per nulla intimorito: che non avesse colto la truce sfumatura nel suo sguardo? Se ne stava impassibile a fissare un punto imprecisato davanti a lui. Da sotto il berretto spuntavano due orecchie tanto inutili quanto grandi, su cui poggiavano le stanghette di un paio di occhiali dalla montatura nera, con lenti che parevano il fondo di un boccale da birra. Cazzaniga lo osservava perplesso: non poteva essere una coincidenza se tre giorni prima proprio da quelle parti avessero ingabbiato il Dritto e tutta la sua banda. Un metronotte aveva segnalato strani movimenti proprio al deposito locomotive, così in tre erano montati sulla Campagnola e si erano fiondati sul posto in tempo per beccarli in flagrante. Non gli avevano dato tempo di scappare e al "mani in alto" le mani le avevano alzate sì, ma per metterle in faccia ai Carabinieri. Per condurli alla ragione, oltre ad una generosa razione di legnate col calcio dei moschetti avevano pure sparato un paio di colpi in aria. Era stato solo grazie all'aiuto del metronotte e di un ghisa di passaggio che erano poi riusciti ad ammanettarli e tradurli a San Vittore. Tolte di mezzo quelle canaglie si era illuso di poter stare tranquillo almeno per un po', ma adesso era punto e a capo e stavolta c'era addirittura un morto ammazzato. A terra giaceva il corpo di un uomo seminudo, senza braghe e senza scarpe, addosso solo una camicia strappata. Era coperto da un lenzuolo macchiato dal sangue di una ferita al petto dalla quale spuntava l'impugnatura di un serramanico.
«Lasciamo stare Resteghini, piuttosto, di quello sotto al lenzuolo cosa mi dice? »
«Sciur comisari! Sono mica un rabdomante io!»
Cazzaniga perse la pazienza: «Sono maresciallo, non commissario! E cosa c'entrano i rabdomanti?»
«Io cosa ne so di cosa c'è nel sottosuolo?»
«Sotto-il-lenzuolo!», scandì Cazzaniga indicando il cadavere. Per un attimo il Resteghini sembrò perdere l'aplomb, poi lo vide concentrarsi. Cercava solo di mettere a fuoco quel corpo che giaceva a pochi passi.
«Sciur comm... siur maresciallo, faga no inscì! Chel lì l'è burlà giò propi dinnanz a mì... che colpa ce ne ho io?»
Un passante riferiva di aver sentito un'auto che sgommava, ma di aver fatto in tempo a vedere soltanto il corpo che rotolava sull'asfalto e un'auto che si allontanava veloce. Sembrava un incidente, un ubriaco distratto travolto da un'auto poi fuggita, ma il fatto che fosse mezzo biotto e con un coltello che gli spuntava dal petto raccontava un'altra storia. Sembrava più un regolamento di conti. Certo però che buttar giù un cadavere da un'auto in corsa era una cosa grossa, più che roba da balordi della ligera sembrava opera di gangster della Chicago di Al Capone. Nessuno aveva visto nulla e il Resteghini era l'unico testimone, ma per lui oculare era una parola grossa considerata la penuria di diottrie. A sbloccare l'impasse giunse un giovanotto arrivato in sella ad una Lambretta, che andò a fermarsi accanto ai militari.
«Era una millecento nera, per un pezzo ce l'ho fatta a starci dietro ma poi in via Rubattino m'è scappata. Questo se lo sono persi per strada.»
Il giovane porse a Cazzaniga un cappotto scuro da uomo. Il maresciallo frugò nelle tasche. Ne saltò fuori una patente di guida che prese a sfogliare borbottando: «Zitti zitti che forse riusciamo a dare un nome al morto...».
La sua eccitazione era palpabile, si avvicinò al cadavere per confrontarlo con la foto sul documento e quindi urlò soddisfatto: «Tel chì!, Armando Cerutti fu Bernardo, residente a Milano in via Vespri Siciliani!»
«L'ho sempar dì che trombarsi la donna di tuo fratello fa male alla salute...», poco più di un sussurro scappato di bocca al Resteghini, che però non era sfuggito a Cazzaniga che subito prese il testimone a muso duro: «Lo conosce?»
«Facciamo un patto maresciallo: io ci dico dov'è l'assassino e dopo al me lasa 'ndà a cà...»
«Resteghini, sputi il rospo e poi vedremo.»
«Se la salma desnuda l'è l'Armando Cerutti andate a cercare suo fratello gemello Gino, detto il Drago. Facile che lo trovate al bar del Giambellino.»
La Campagnola si allontanò lungo la via. Resteghini più che vederla la intuì, poi si incamminò meditabondo: dopo quella spifferata avrebbe dovuto tenersi alla larga dal Giambellino per un bel pezzo. Quegli sbarbati dell'Ortica poi era chiaro che gli avevano tirato il pacco: dopo tre giorni si era rotto le balle di aspettare: "se laùra minga inscì, rubare così l'è propi un laurà de ciula! Sun minga un bamba mì! Il Resteghini a l'è un prufessionista, fa il palo l'è il me mistè!".

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È la prima volta che mi cimento in un raccontino polizziottesco tendente al noir con amibizioni umoristiche. Credo non sia necessario specificare che lo spunto per la "trama" mi sia venuto da due popolari canzoni di Enzo Jannacci, "Faceva il palo" del 1966 e "L'Armando" del 1965, con un piccolo cameo di Giorgio Gaber con la sua da "Ballata del Cerutti", del 1960. Mi sono preso la libertà di far diventare il Gino ben più che "un tipo duro": un assassino fratricida.