sabato 23 aprile 2022

NELLA TERRA DEI GIGANTI

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Il grande Antonio Tabucchi, che di libri e di scrittura qualcosa ne sapeva, nel suo “Viaggi e altri viaggi” scrive: “Sono un viaggiatore che non ha mai fatto viaggi per scriverne, cosa che mi è sempre parsa stolta. Sarebbe come se uno volesse innamorarsi per poi scrivere un libro sull'amore”. Come dargli torto?

La cronaca del lungo viaggio a piedi di Daniele Vallet finisce su carta ben undici anni dopo la sua conclusione e la cosa credo ne testimoni come meglio non si potrebbe la genuina sincerità. Il suo non è stato un viaggio compiuto per poi essere raccontato, bensì è il racconto di un pezzo della sua vita vissuto in viaggio, un pezzo importante.

“... l'armonia del flusso della vita non dipende da ciò che accade nella stessa. Proverò a dimostrarvelo raccontandovi di questo viaggio”.

Il Nepal, Kathmandu, il Tibet e la regione himalayana sono lo scenario nel quale si sviluppa il suo vagabondaggio in solitaria ma non in solitudine, affrontato fuori stagione per limitare il più possibile la contaminazione di quel turismo di massa che oggi “sporca” luoghi del nostro pianeta che non si sa per quanto ancora resteranno isole felici nella semplice genuinità dell'accoglienza della popolazione locale.

Un'esperienza come questa lascia il segno nella vita di un uomo e il Daniele che oggi racconta quel suo cammino in queste pagine è conscio di essere un uomo molto diverso da quello che undici anni prima, benedetto da un sonoro “fanculo!” di suo nonno, stipò le sue cose in uno zaino per andare a vivere cinque incredibili mesi in compagnia solo di se stesso, in cammino lungo i trail che salgono le pendici della catena himalayana.

“In questo istante stai vivendo e morendo allo stesso tempo. Qualcosa in te muore in ogni istante. (...) In ogni istante continui a morire, e alla fine morirai davvero. (Osho)”.

La nostra esistenza si consuma un giorno dopo l'altro senza che quasi ce ne rendiamo conto e i bilanci si tende a farli alla fine, perché lo scorrere del tempo è una componente essenziale: ci vuole tempo per rivedere se stessi e ciò che si è fatto con il necessario distacco. Troppo spesso ci troviamo a vivere i nostri giorni nell'insoddisfazione. Anche quando non ci manca nulla si fatica a gioire per ciò che la vita, nonostante tutto, generosamente ci offre, senza renderci conto di quanto tempo buttiamo via in questo modo.


È solo staccando da quella che era la sua quotidianità che Daniele riesce a ritrovare l'esatta misura delle cose e di conseguenza la felicità, al punto di arrivare a riconoscerla anche quando gli si presenta sotto forma di un piatto caldo di spaghetti scotti conditi con il ketchup.

“... credo che il mio corpo abbia iniziato a produrre gli anticorpi emotivi, per vincere questa “mancanza di senso” che ogni tanto mi coglie nella vita, a tradimento”.

Il cibo si fa metafora, nutre il corpo ma anche l'anima, e la gratificazione dell'ennesima frittata con patate accompagnata dall'ennesima scodella di chai diventa la misura di come in fondo la felicità sia sempre lì, a portata di mano, ma si fatica a coglierla perché la nostra attenzione va a quanto ci sfugge senza vedere tutto il buono che già c'è.

“Mi devo fermare, devo respirare. Il pensiero di essere nel posto giusto al momento giusto, ma nella totale incapacità di cogliere tutta questa bellezza mi paralizza”.

Se nei primi capitoli traspare la baldanza di chi è giustamente gasato dall'eccezionalità di quanto ha fatto, con più avanza nel racconto di quel suo cammino più lo scrivere di Daniele si fa sentito. Dalle pagine scompaiono quei toni a volte sarcastici per aprirsi in un dialogo più intimo con il lettore, riflessioni ad alta voce che diventano lo spunto per meditare sulla consapevolezza individuale.

“Lo Zen, è semplicemente lo Zen. (…) Per dirlo in termini 'occidentali': è l'accettazione della vita così com'è, senza alcuna propensione verso ciò che non possiamo avere, ma anzi, accettando e manifestando gioia per ciò che si ha nella vita quotidiana”.




Una mia considerazione personale: sarà che per mia natura sono un narratore prolisso ma come lettore è l'ennesima volta che soffro davvero nel trovare le vicende e le emozioni di mesi e mesi di cammino espressi, in questo caso, in solo 170 pagine (anzi, 150, tolte quelle con le foto, quelle le massime Zen che chiudono i vari capitoli e quelle della divertente prefazione firmata da Patrizio Roversi).
Che le logiche di produzione industriale di un libro (meno pagine = meno carta = minor costo di stampa) abbiano il sopravvento rispetto ad altre considerazioni puramente narrative? Fosse davvero così sarebbe davvero triste.